Quante volte ci siamo trovati ad aprire il feed dei nostri social per notare come l’odio sia oramai dilagante?
L’odio si manifesta attraverso la violenza verbale, un mix tossico di insulti, minacce, commenti aggressivi e provocatori.
È, infatti, quasi raro non trovare scambi al limite della violenza sotto i commenti di un post o video con molte visualizzazioni sui temi più disparati. Dai post più frivoli sulla quotidianità di un influencer o personaggio pubblico alle questioni più calde in cui rientrano la politica, la violenza di genere e l’attualità sociale e culturale.
Dovremmo, magari, domandarci che fine ha fatto il senso di umanità?
Facciamo insieme qualche passo indietro.
Perché online siamo sempre più arrabbiati
Circa dieci anni fa, correva l’anno 2015 e durante una lectio magistralis all’Università di Torino fu chiesto a Umberto Eco cosa pensasse di Internet e dell’avvento dei social media. Lo scrittore e intellettuale disse “ con i social la parola è stata data a legioni di imbecilli”.
A distanza di tempo la sua risposta risuona come una profezia.
Prima le persone si scambiavano opinioni al bar e se arrivavano ad urlarsi era solo perché avevano alzato il gomito. Man mano che internet è diventato un’estensione delle nostre vite dall’offline all’online la piazza del confronto si è solo spostata.
È diventata una cassa di risonanza ampia, accessibile da un numero maggiore di persone e sempre meno munita del filtro della buona educazione e del rispetto umano.
Una chiave di lettura per capire l’origine della violenza online potrebbe tenere conto della natura delle emozioni che si generano.
Attraverso un’analisi neuroscientifica supportata da casi reali, scopriremo come riconoscere i meccanismi di odio e il loro rapporto con i contenuti emozionali.
Dal cervello ai social. I neuroni specchio dell’imitazione
Ogni volta che online esplode la cosiddetta shitstorm, termine inglese con cui si indica una tempesta di parole, in generale, aggressive, si attivano meccanismi cerebrali che ci spingono ad agire, se non a schierarci.
Dietro queste dinamiche ci sono i neuroni specchio, cellule che ci permettono di rispecchiare emozioni e atteggiamenti altrui e che trasformano empatia e appartenenza in strumenti di schieramento.
Poiché tendiamo a immedesimarci nelle emozioni, siamo disposti, a seconda della situazione, ad avvicinarci verso chi prova le nostre stesse emozioni così come a prendere le distanze da chi riteniamo diverso da noi.
Nel mondo digitale dove le caratteristiche della singola persona, ragione e sentimenti sono più accentuate, un singolo contenuto diventa il terreno fertile per rafforzare il senso di appartenenza o creare divisione sociale.
Viene da sé che l’ambiguità e la disinformazione si diffondono con più facilità e il confronto si riduce a una questione di faziosità.
E l’empatia, il loro comune denominatore diventa al tempo stesso un collante sociale e un acceleratore di conflitto.
L’evoluzione dell’empatia dalla tribalità al digitale
D’altronde, dalla notte dei tempi l’empatia è uno strumento adattivo per ogni essere umano. Dal punto di vista evolutivo, essere empatici significa sentirsi solidali. Si è empatici per sopravvivenza e come effetto della selezione naturale.
Il problema nasce quando questo meccanismo naturale si trasferisce online. Siamo più reattivi verso chi percepiamo simile e tendiamo a escludere o contrapporci a tutte le possibili varianti da noi. Come ricorda l’antropologo Paul Ekman, emozioni universali come rabbia e paura diventano segnali potentissimi di appartenenza e di divisione. Accade oramai che questo tipo di emozioni offline rafforzavano la coesione del gruppo e online, invece, alimentano la polarizzazione e i conflitti.
Il contagio emotivo digitale è un vaso di Pandora
E mentre i feed e le community amplificano solo le emozioni che corrispondono alla voce del gruppo nascono le echo chamber. Sono stanze virtuali dove ogni parola rimbalza e si moltiplica fino a che sentiamo solo versioni sempre più estreme delle nostre convinzioni iniziali. Queste bolle ovattate alimentano anche i nostri bias di conferma. Pur di non vivere situazioni psicologiche ed emotive che ci provocano disagio o rischiano di isolare, mettiamo in atto strategie che giustificano le nostre opinioni attraverso l’uso di emoji, MEME e reazioni ai post.
Ogni simbolo diventa un trigger emotivo che attiva i nostri neuroni specchio i quali generano una catena di imitazioni emotive capaci di plasmare il tono di una conversazione online.
Pensiamo ai fandom digitali, cioè comunità che si definiscono non solo per ciò che amano, ma anche per ciò che li distingue da altri gruppi.
Le dinamiche virali nei fandom tra Apple e Android
Uno degli esempi di questo genere è la rivalità tra utenti Apple e Android. In apparenza sembrerebbe una semplice preferenza tecnologica. Si sa che c’è chi preferisce l’uno e chi l’altro. Nella pratica, però, si rivela molto altro. La questione prende le sembianze di una diatriba identitaria e di status quo.
A dire il vero, la differenza si è accentuata quando qualche tempo fa il Meme di Apple che deride Android ha generato una mobilitazione online. Una pioggia di like, condivisioni e commenti di sostegno a favore di Android ha rafforzato il senso di appartenenza dei sostenitori di quest’ultimo. Ha creato una demarcazione più chiara tra le due tribù tecnologiche in lizza nel mercato di riferimento.
Insomma, in scenari come questo entrano in azione gli algoritmi dei social network, che amplificano e premiano le emozioni più polarizzanti.
Quando i contenuti emozionali incontrano gli algoritmi
Le piattaforme social, come saprai, selezionano e amplificano i post che generano più interazioni, perché ogni minuto in più trascorso online equivale a guadagno.
Bisogna, quindi, prestare particolare attenzione alle emozioni che innescano reazioni immediate. Infatti, che si tratti di rabbia, paura o indignazione si diffondono più facilmente della serenità o della gioia poiché facilitano la contrapposizione. Di conseguenza, i contenuti che dividono vengono premiati e riproposti. Vediamo con maggiore frequenza ciò che conferma le nostre convinzioni e le differenze da chi la pensa diversamente.
Perché rabbia e paura viaggiano più veloci della gioia
Proprio questa tesi è sostenuta dalle ricerche di Jonah Berger e Katherine Milkman della University of Pennsylvania. Le emozioni ad alta intensità come rabbia e paura hanno maggiori probabilità di diventare virali rispetto a emozioni positive.
Ciò si verifica perché quando i neuroni specchio rilevano segnali di pericolo o minaccia attraverso un contenuto, il cervello attiva la risposta di fuga. Perciò, tendiamo subito a commentare, condividere la nostra opinione o reagire in maniera aggressiva. È un riflesso di sopravvivenza che ci ha protetti per millenni, ora viene, invece, sfruttato da algoritmi per massimizzare il coinvolgimento.
Al contrario, la gioia e la soddisfazione attivano il sistema parasimpatico che ci porta verso uno stato di rilassamento. Quando vediamo un contenuto che ci fa sorridere, ci limitiamo a goderci il momento senza sentire l’urgenza di condividerlo. Non è paradossale?
I contenuti che ci fanno stare meglio hanno meno probabilità di diffondersi, mentre quelli che ci agitano conquistano i nostri feed in modo veloce.
Come gli algoritmi mappano e amplificano le emozioni
Ma come fanno esattamente gli algoritmi a identificare e amplificare le emozioni forti?
Gli algoritmi dei social media monitorano centinaia di segnali. Dal tempo che trascorriamo su un post prima di scrollare al ritardo tra visualizzazione e reazione. Così, questi micro-comportamenti permettono all’algoritmo di mappare quali contenuti generano reazioni più intense.
D’altronde, gli algoritmi sono diventati sempre più bravi a prevedere cosa ci farà arrabbiare o quali contenuti sono in grado di coinvolgere maggiormente.
Il caso Trump: storytelling emozionale virale
L’era Trump rappresenta forse l’esempio più lampante di come neuroni specchio e social network possano essere ben coniugati per creare e mantenere divisione sociale su scala globale.
Tra il 2016 e il 2020 la diffusione degli slogan “Make America Great Again” o “Build the Wall” esulano dalla semplicità comunicativa dei messaggi politici. Sono diventati piuttosto dei trigger progettati per attivare simultaneamente i neuroni specchio di milioni di persone. Lo scopo è creare un senso di identità viscerale.
Perciò, ogni tweet, ogni discorso segue la stessa formula. Viene identificato un nemico esterno. Si favorisce la retorica del “noi contro loro” che non lascia spazio alla ritrattazione delle proprie posizioni.
Ma l’aspetto più interessante dal punto di vista neuroscientifico è come questa strategia abbia funzionato anche su persone che all’inizio non erano trumpiani. Anzi, l’onda retorica ha proprio creato una narrativa che ha contribuito ad amplificare la presenza mediatica di Trump e a minacciare le moderne democrazie.
Verso la comunicazione inclusiva
A questo punto, se l’esempio di Trump ci mostra il lato oscuro dello storytelling emozionale, non dimentichiamoci che esiste anche la faccia positiva della medaglia.
Ed è qui che entra in gioco la vera sfida per chi si occupa di comunicazione digitale. Siccome le parole non sono neutre abbiamo la responsabilità di creare contenuti che siano da ponte in uno scenario politico, sociale e culturale individualistico e di odio.
Bisogna imparare a progettare messaggi che includono valori e identità o appartenenze diverse tra loro. Possiamo, pertanto, evitare narrazioni divisive e scegliere di raccontare storie che mettano al centro obiettivi comuni, collaborazione e soluzioni condivise.
Storytelling inclusivo per non alimentare le barriere umane
Uscire dalle echo chamber richiede uno sforzo ragionato. Intanto è possibile osservare voci diverse, leggere fonti che mettono in discussione le nostre certezze ed esporre volontariamente i nostri neuroni specchio a prospettive alternative.
In secondo luogo, possiamo imparare ad usare la bussola dello storytelling inclusivo.
Scrivere per coinvolgere e non escludere. Scrivere per mettere in pratica il principio numero 8 del Manifesto della comunicazione non ostile “le idee si possono combattere, le persone no”. Una regola semplice e rivoluzionaria, che invita a spostare il focus dal nemico esterno all’obiettivo comune.
Tradurre questo approccio in pratica richiede scelte costanti. Ecco alcune linee guida:
- scegli un linguaggio omnicomprensivo che stimoli senso di unione e appartenenza;
- domandati se stai escludendo qualcuno dalla tua narrazione;
- sfrutta la leva empatica per eliminare le congiunzioni avversative come il “ma” per introdurre prospettive inclusive (“Capisco la tua posizione, e possiamo considerare anche…”);
- crea contenuti collaborativi: sondaggi, progetti o format che richiedano il contributo di community con opinioni differenti;
- premia il dialogo costruttivo e valorizza esempi di confronto rispettoso anche senza accordo totale.
- punta all’arousal positivo per stimolare curiosità, speranza e fiducia che guidano verso comportamenti più costruttivi.
Lo storytelling inclusivo è la scelta per costruire ponti narrativi.
Il futuro della comunicazione digitale è oltre la polarizzazione
Ora che la mia domanda iniziale “perché online siamo sempre più arrabbiati” ha trovato una risposta sappiamo che la faccenda dipende dagli algoritmi.
Ma noi, popolo dei social, copywriter, marketers e brand non siamo sollevati da responsabilità, anzi!
Ogni volta che pubblichiamo qualcosa o ogni volta che reagiamo a un post attiviamo la nostra voce interiore. Perciò domandiamoci “voglio essere parte del problema o un tassello che conduce alla soluzione?
Sono qui per generare entropia?
Avere acquisito consapevolezza dei meccanismi di polarizzazione online e degli algoritmi è già sufficiente per sapere come vogliamo influenzare la nostra rete social.
Il cambiamento inizia dal prossimo contenuto che pubblicherai.
Ricordati che hai il potere di cambiare la temperatura emotiva della tua rete. Usalo con intelligenza.