Hai mai sentito un brivido mentre guardi una pubblicità o leggi un testo che sembra parlarti in modo diretto?
Se è così, è possibile che tu abbia provato quella sensazione che ti fa dire: “Questo brand mi capisce” e prende il nome di marketing emozionale.
Ma cosa succede quando quel brivido si trasforma in ansia, fretta o senso di colpa?
Da quando il marketing ha acquisito consapevolezza sul valore delle emozioni nel processo decisionale e negli acquisti si è aperto un dibattito online sulla bontà delle intenzioni del marketing delle emozioni.
Qual è il confine tra creare connessioni e manipolazione mascherata?
La risposta per marketers, copywriter e gli stessi brand sta nel modo in cui si servono delle neuroscienze applicate al marketing e della scrittura persuasiva per creare contenuti in grado di orientare le emozioni dei consumatori.
Da un lato, gli studi sui neuroni a specchio ci aiutano a capire perché ci immedesimiamo nelle storie, nei volti e nelle emozioni che vediamo. Dall’altro, le stesse leve psicologiche ci permettono di comprendere come gestire le paure e le insicurezze delle persone. Queste emozioni possono essere trasformate in vettori di acquisto o, ancora, per creare collaborazioni o avviare consulenze.
In questo nuovo articolo esploriamo, quindi, il confine sottile tra empatia e manipolazione. Analizzeremo alcuni casi significativi in cui il ruolo della psicologia del marketing, il contributo delle neuroscienze e il neurocopywriting sono stati decisivi per costruire fiducia o, al contrario, minarla se non dosati in modo adeguato.
Cos’è il marketing emozionale e perché conta oggi
Anzitutto partiamo dal concetto di marketing emozionale. Il marketing delle emozioni è inteso come l’insieme di strategie che studia le emozioni e le sensazioni dei consumatori per far sì che i brand attivino determinate risposte emotive rispetto all’acquisto di un prodotto o servizio.
Questo tipo di marketing supera l’identikit della cosiddetta buyer persona. Sapere chi è il cliente, cosa desidera, che lavoro fa, dove vive o quali hobby coltiva non è più sufficiente. È necessario, piuttosto, restringere la lente di ingrandimento al campo visivo del sentire. Quali sono le emozioni che lo accompagnano? Cosa lo ispira ogni giorno, qual è il suo vissuto, come, soprattutto, il contesto culturale e sociale in cui vive lo influenzano?
Una volta ottenute queste informazioni, abbiamo gli elementi per riprodurre la sua storia, per coinvolgerlo nello sviluppo e nella scrittura del finale che lo vedono investito del ruolo di protagonista. Ed è proprio qui che le neuroscienze ci confermano che le emozioni non sono una semplice cornice del processo di scelta. Esse sono il vero motore che guida gran parte delle nostre decisioni.
Emozioni e decisioni d’acquisto
Secondo la ricerca della Harvard Business Review solo il 5 % delle scelte segue un ragionamento logico e quindi consapevole. Il restante 95% è deciso sotto l’influenza dei processi emotivi. Il dato, confermato anche dalle neuroscienze, dimostra perché il riconoscerci in un’immagine, un valore o una sensazione è l’elemento agente del marketing delle emozioni.”
Quando siamo mossi dalla paura, dal sentimento di appartenenza, dalla fiducia oppure siamo in cerca di gratificazione istantanea o desideriamo distinguerci dalla massa, un brand ha abbastanza informazioni su di noi per creare un dialogo e convertirci in suoi clienti.
Ma qual è il confine per non cadere nella trappola della manipolazione?
Quando l’emozione diventa un’opportunità e quando diventa rischio
Sappiamo, anche, che le emozioni possono fungere da specchio. Ciò rende possibile il fenomeno del contagio emotivo. Secondo questa teoria psicologica proviamo e amplifichiamo ciò che percepiamo negli altri, soprattutto in comunità o ambienti digitali. A maggior ragione l’algoritmo premia i contenuti in grado di suscitare reazioni forti che si propagano a macchia d’olio.
Questo meccanismo può manifestare il rovescio della medaglia. Un brand che usa l’empatia per trasmettere fiducia o gratitudine costruisce legami genuini. La sua buona fede, invece, può essere compromessa quando si serve delle emozioni per alimentare ansia, paura della perdita o divisioni sociali e culturali. Qui il contagio emotivo funziona ma il suo fine cambia. Diventa lo strumento che spinge verso la polarizzazione e la manipolazione.
Ma se le emozioni vengono piegate, andiamo incontro a un doppio rischio per l’acquirente e per il brand. Mentre il primo vive una perdita di consapevolezza e libertà di scelta; il secondo rischia di compromettere la reputazione e di bruciare la fiducia e il futuro dell’azienda.
A questo punto arriva in aiuto la scrittura che è in grado di sottolineare il filo sottile tra le due facce. Ogni parola può aprire uno spazio di fiducia così come può forzare una decisione. Perciò la scrittura persuasiva diventa il terreno ideale per distinguere empatia da manipolazione.
Empatia vs manipolazione nella scrittura persuasiva
Infatti, la scrittura persuasiva è una tecnica che nasce per catturare l’attenzione del lettore e infondere fiducia e le sue funzioni ci aiutano a capire meglio questa linea di demarcazione. Come?
Per prima cosa, riconosce le emozioni dei lettori, le osserva e le analizza. In un secondo momento prova a mettersi nei loro panni. D’altronde, un testo empatico è capace di distinguere le sfumature emotive del lettore e, aspetto da non sottovalutare, le accoglie senza giudizio o pressione.
Il linguaggio della scrittura persuasiva è empatico, usa parole sensoriali e non crea emergenza, non costringe all’azione.
Vediamo direttamente due esempi:
- Copy empatico → “Ti capiamo: trovare il tempo per te stesso non è facile. Per questo abbiamo creato un percorso flessibile, che si adatta ai tuoi ritmi.”
- Copy manipolativo → “Se non inizi oggi, potresti avere difficoltà a raggiungere i tuoi obiettivi,
Il primo testo ha un linguaggio caldo e comprensivo che si esprime attraverso l’espressione “ti capiamo”. La persona che scrive spiega in modo implicito al lettore che lei stessa ha vissuto una situazione simile. Sa quanto sia complicato dedicarsi del tempo e quindi adatta l’offerta alle esigenze del lettore e conclude con “per questo abbiamo creato un percorso che si adatta ai tuoi ritmi”.
Il secondo testo, diametralmente opposto, crea urgenza e sfrutta la paura della perdita per spingere a un’azione immediata.
Così facendo la scrittura persuasiva costruisce un recinto spinato per sottrarre possibilità e controllare le emozioni.
Insomma, possiamo scorgere la differenza nell’intenzione anziché nella tecnica. Tuttavia, il punto non è tanto perché il marketing emozionale usa le emozioni, bensì in che modo.
Il modello AIDA nella scrittura persuasiva
Anche la tecnica, però, ha il suo valore e la sua carica positiva. Una delle più utilizzate nel neurocopywriting è il modello AIDA: Attenzione, Interesse, Desiderio, Azione. Grazie a questo acronimo mettiamo in pratica gli insegnamenti delle neuroscienze che cercano di eseguire il modo in cui la nostra mente si lascia coinvolgere.
- Attenzione: si osservano in modo attento i comportamenti dei consumatori per sintonizzarsi con ciò che la persona che legge già prova.
- Interesse: una volta catturata l’attenzione, bisogna nutrirla. Qui entrano in gioco storie, esempi e immagini che richiamano esperienze vissute, creando riconoscimento e vicinanza.
- Desiderio: si cerca di accendere una possibilità. Mostrare un futuro realizzabile in cui il lettore possa riconoscersi e desiderare di arrivare.
- Azione: il passo finale è un invito naturale. La CTA funziona quando accompagna e la persona sceglie di agire perché sente coerenza e valore.
Dunque, possiamo usare il modello AIDA per favorire scelte coscienti e per creare una speciale sintonia con i brand.
Per capire davvero dove finisce un modus operandi e inizia l’altro vale la pena osservare i due prossimi casi studio.
Caso studio: Dove vs Cambridge Analytica
Il potere dei contenuti emozionali non sta tanto nell’emozione in sé, ma nel modo in cui questa viene attivata e direzionata. Due esempi molto noti ci aiutano a capire la sottile differenza tra empatia e manipolazione.
Dove e la Real Beauty Campaign, un esempio di empatia
Il primo caso è una prova che i brand sanno essere empatici. Nel 2004 Dove lancia la campagna Real Beauty con l’intento di mostrare donne reali e dai corpi che sfuggono dai rigidi canoni estetici. Così facendo il brand ha voluto rompere la tradizione pubblicitaria che alimenta gli stereotipi dell’abilismo, ageismo, della cultura bianca dominante e del lookismo (pregiudizi basati sull’aspetto fisico) per rafforzare l’autostima, il senso di fiducia e di appartenenza della categoria femminile.
Il progetto ha fatto leva sui neuroni a specchio, le cellule cerebrali che si attivano sia quando compiamo un’azione, sia quando la osserviamo in un altro. È grazie ad essi che ci immedesimiamo e proviamo le stesse emozioni che vediamo negli altri. Così, la campagna ha permesso al pubblico femminile di riconoscersi e sentirsi rappresentato.
Cambridge Analytica e l’uso poco etico dei dati
Un caso, invece, controverso e che ha fatto molto discutere riguarda Cambridge Analytica. C’è stato un periodo in cui la società di consulenza britannica raccoglieva e usava i dati degli utenti in modo poco etico. Trasformava le informazioni delicate per contenuti pronti a generare contagio emotivo e paure inconsce.
Usava trigger concreti come l’ansia per la sicurezza personale, senso di minaccia alla propria identità per alimentare bias tra le persone e scontro di idee. I trigger venivano esasperati nelle occasioni di confronto pubblico a tal punto da essere trasformati in opinioni polarizzate e per orientare le scelte politiche.
Qui il marketing emozionale dimostra di non essere uno strumento di connessione, bensì diventa un dispositivo di controllo.
Cosa impariamo da questi due esempi?
Queste due storie ci insegnano che le emozioni non sono né buone né cattive. Tutto dipende da come vengono attivate. La paura, ad esempio, può aiutarci a proteggerci oppure può diventare un’arma per confinarci in un angolo, per silenziare i nostri pensieri e opinioni (pensiamo alla Spirale del silenzio).
All’opposto, la vera differenza sta nella direzione che diamo al messaggio:
- l’empatia usa la scrittura persuasiva per rafforzare l’autostima e il senso di sicurezza della persona;
- la manipolazione, invece, sfrutta le sue fragilità per spingerla verso scelte non del tutto libere.
Come copywriter, quando scriviamo per un brand, per una campagna di utilità sociale siamo come pellegrini ad un bivio del sentiero. Possiamo decidere se le emozioni che intendiamo evocare aprono la porta all’empatia oppure manovrarle per dare vita a condizionamenti e inganni.
È così che emerge la responsabilità etica di ciascun professionista delle parole.
Conclusione: il valore di un marketing emozionale etico
Il marketing emozionale come avrai letto fin qui, parla la lingua universale dei sentimenti.
Ogni brand, ogni copywriter, ogni professionista della comunicazione può decidere se usare le emozioni per offrire un miglioramento o impoverimento dei contenuti. Il compito di chi comunica è accompagnare, ispirare senza ingannare.
Ciò che possiamo apprendere dal marketing emozionale è il dare senza aspettarsi una ricompensa nell’immediato. L’etica, la coerenza del tono e dei contenuti permettono a un brand di generare relazioni durature. La leva più persuasiva che possa attuare e realizzare nel lungo periodo è la sua fiducia.
E oggi, in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale produce testi e immagini a velocità vertiginosa, il marketing emozionale ha una missione ancora più grande. Può restituire anima e umanità all’esperienza dei clienti. Perché ciò che rende unico un contenuto è la capacità di farsi sentire vivo.
Il futuro della comunicazione sarà scritto dalle persone che sapranno usare le emozioni per rendere le relazioni più personali e umane che mai.
