Il neuromarketing è un termine di recente formazione. È nato dall’incontro delle neuroscienze con il marketing ed è considerato come la disciplina che usa lo studio sui meccanismi cognitivi della mente umana per indagare le scelte di acquisto e di consumo delle persone.
In questo articolo di approfondimento, esploriamo il legame tra marketing e neuroscienze e vediamo come la psicologia sociale e cognitiva, la semiotica e la linguistica abbiano contribuito a renderlo uno strumento strategico per migliorare il mondo della comunicazione.
Neuromarketing: cos’è
Agli inizi degli anni 2000 Alex Smidts, professore di ricerche di marketing della Erasmus University di Rotterdam coniò il termine “neuromarketing” sotto l’influenza degli studi sull’elettroencefalogramma. Il ricercatore aveva appreso la possibilità di conoscere le funzioni cognitive e le eventuali modificazioni del comportamento a seguito della ricezione di stimoli esterni attraverso l’indagine sull’attività cerebrale umana.
Già, anni prima, la scuola di pensiero di psicologia comportamentista confermava questa tesi. Sosteneva che il cervello umano risponde agli stimoli attraverso la creazione di associazioni mentali tra tasselli di conoscenza pregressa, intuizioni e nuove conoscenze, evoca emozioni e sensazioni che generano nella persona una risposta di azione.
Ecco perché quando ci esponiamo a determinati jingle, scelte cromatiche e setting grafici delle pubblicità online e offline rievocano in noi ricordi, stimolano desideri che si traducono in scelte di acquisto.
Come funziona il neuromarketing
Prima delle ricerche di Alex Smidt, il marketing aveva indagato solo la dimensione razionale del processo cognitivo di una persona. Il cervello, però, è una macchina elettrochimica più complessa di quanto si possa credere. Da una parte c’è la dimensione cognitiva in cui ogni volta che il cervello genera un pensiero o si compie un’azione, i suoi neuroni si scambiano informazioni grazie alla presenza delle sinapsi, cioè punti di contatto da cui acquisire informazioni. Dall’altra, esiste la componente emozionale che accompagna la generazione di pensieri, azioni e decisioni nelle persone.
Per spiegare quanto avviene possiamo fare riferimento a una branca della psicologia cognitivista detta “Hot cognition” (cognizione calda). In pratica, le emozioni hanno il potere di plasmare i nostri comportamenti e la realtà che ci circonda. Ciò accade in quanto le emozioni che si generano dipendono dagli stimoli ricevuti determinando cambiamenti fisiologici, comportamentali, decisionali e motivazionali.
Ma come possiamo distinguere il marketing tradizionale da quello che si fonda sulle neuroscienze?
Differenza tra neuromarketing e marketing tradizionale
Entrambi hanno in comune la volontà di influenzare i consumatori. Le strategie che usano ne determinano, invece, la differenza. Mentre il marketing tradizionale usa i dati analitici che ricava dalle ricerche demografiche, sondaggi e interviste per costruire il prodotto, il prezzo e i vantaggi di un bene o servizio; il neuromarketing non chiede al consumatore cosa gli piaccia ma studia direttamente le sue reazioni emotive e i suoi impulsi per determinare un customer journey ad hoc.
In sintesi, per rendere più chiara la distinzione, potremmo concludere che il marketing classico ci domanda cosa vogliamo, ci ascolta e se possibile cerca di esaudire le nostre aspettative. Il neuromarketing, invece, va più in profondità. Si serve della psicologia del marketing per leggere i nostri pensieri e le emozioni. Inoltre, adatta le sue offerte alle percezioni del momento che stiamo vivendo. Vuoi sapere come fa?
Neuroscienze applicate al marketing e alla comunicazione
La risposta si trova nell’esistenza e utilità dei cosiddetti Neuroni a Specchio. Si tratta di una speciale classe neurale, scoperta dall’equipe scientifica di Giacomo Rizzolatti alla fine degli anni ‘90 e in grado di dare una spiegazione all’empatia, alla generazione di emozioni e ai fenomeni imitativi. Alla luce delle ricerche scientifiche è possibile, così, comprendere atteggiamenti emulativi da parte dei clienti rispetto a un brand.
Se vediamo un amico scartare un pacco del suo brand preferito, nel nostro cervello si attivano le stesse aree come se fossimo noi a vivere quell’esperienza. Lo stesso accade quando ci immedesimiamo in un personaggio della nostra serie tv preferita: senza volerlo, ci accorgiamo che sempre più spesso riproduciamo una stessa espressione verbale, una risata, la medesima espressione del viso.
Sono proprio questi i dettagli che un brand deve attenzionare se intende fare leva sulla dimensione emotiva più che su quella razionale dei destinatari dei messaggi delle sue campagne di comunicazione.
Neuroscienze e marketing emozionale
Le neuroscienze, d’altronde, non si fermano ai neuroni a specchio. Per capire perché scegliamo un brand piuttosto che un altro, bisogna guardare al ruolo delle emozioni e ai processi cerebrali che le governano. Il passo successivo, infatti, ci guida ad indagare come il cervello elabora emozioni e ricordi, terreno su cui si costruisce il marketing emozionale.
Sappiamo che molte delle scelte che compiamo ogni giorno passano per il sistema limbico e l’amigdala, aree cerebrali in cui si attivano i ricordi e si elaborano le emozioni primarie come la gioia, la tristezza, la rabbia e la paura.
Essere a conoscenza di questi processi permette di impostare strategie efficaci di marketing emozionale per creare un legame duraturo dei clienti con il brand ed entrare in sintonia empatica con le loro paure, le attese e i desideri.
Una delle tecniche di marketing emozionale più usate è “l’effetto priming”. Qui l’esposizione a uno stimolo prepara il cervello a reagire in un certo modo. Da utente che naviga un sito, ad esempio, il bottone verde della “call to action” cioè quel tastino che converte un qualunque utente in acquirente ci trasmette sicurezza , facilità il passaggio, la scelta successiva, ossia mettere il prodotto nel carrello e pagare.
Il ventaglio di applicazioni delle neuroscienze non si esaurisce, però, alla vendita. Diventa una sfida interessante quando è in grado di rassicurare, coinvolgere, comunicare in modo efficace e generare curiosità attraverso le parole.
Neuroscienze e copywriting
Se emozioni, priming e bias cognitivi influenzano il modo in cui percepiamo un messaggio, non lo sono di meno le parole che usiamo. La scrittura diventa uno degli strumenti più potenti per guidare le decisioni. È da qui che nasce il concetto di neurocopywriting, ovvero una forma di scrittura persuasiva che unisce scienza e linguaggio. Capace di riempire di significato le parole che richiamano le esperienze.
Il ruolo della linguistica e della semiotica nel neurocopywriting
Accanto alle neuroscienze, lo studio delle parole in contesti culturali e sociali diversi così come quello dei segni rappresentano una risorsa per il copywriting persuasivo. Mentre la linguistica ci mostra come la scelta di una parola influenzi la percezione. Termini come “gratuito”, “nuovo”, “esclusivo” attivano frame cognitivi diversi e guidano la decisione. La Semiotica, invece, studia i segni e i simboli che accompagnano i testi, dal colore di un pulsante all’uso di emoji o della punteggiatura. La combinazione sapiente di linguistica e semiotica dimostrano che oltre al contenuto di un messaggio contano la sua forma e i codici con cui è trasmesso. È in questo intreccio tra neuroscienze, linguistica e semiotica che il neurocopywriting trova le sue basi.
Cos’è il neurocopywriting
Come abbiamo visto, quindi, un testo di neurocopywriting non comunica solo un messaggio, ma costruisce un’esperienza. Crea empatia, stimola le intuizioni e accompagna il lettore verso l’azione in maniera naturale. È questo mix tra scienza e scrittura a renderlo uno strumento sempre più rilevante per marketer, brand e aziende che vogliono distinguersi in un contesto saturo di contenuti.
Per realizzare questo intento il neurocopywriting intercetta i bisogni umani organizzati nella piramide di Maslow:
- Bisogni fisiologici. Prima di tutto ci sono le necessità più immediate. E un buon testo sa evocare comfort e sollievo già dalla prima riga. Pensa a una headline che promette riposo dopo una giornata estenuante come “Dormirai meglio fin da stanotte”.
- Bisogni di sicurezza. La fiducia è il ponte che trasforma un lettore in cliente. Una CTA che dice “soddisfatti o rimborsati” è un modo per far respirare chi sta decidendo, per abbassare la sua soglia di rischio.
- Bisogni sociali. Siamo animali relazionali: vogliamo appartenere. Un messaggio come “entra nella community di oltre 10.000 persone” non vende solo un prodotto, vende l’idea di non essere soli in quella scelta.
- Bisogni di stima.Qui il copy gioca con il desiderio di riconoscimento. Non stai comprando un oggetto, stai confermando chi sei: “Il prodotto scelto dai professionisti” ti mette dalla parte di chi conta, rafforzando la tua identità.
- Bisogni di autorealizzazione. Il livello più alto non parla di possesso, ma di trasformazione. È il copy che ti proietta in avanti: “Diventa la versione migliore di te stesso”. Una frase che non vende un bene, ma un futuro in cui credere.narrazioni che mostrano crescita personale e trasformazione.
Copywriting tradizionale vs neurocopywriting
A differenza del copywriting tradizionale, che punta principalmente sulla creatività e sullo stile, il neurocopywriting si basa su evidenze scientifiche. Oltre ai neuroni a specchio, esistono i bias cognitivi e i meccanismi di attenzione. Ogni scelta linguistica è pensata per dialogare con il modo in cui il cervello elabora informazioni. Come possiamo, dunque, riconoscere i bias cognitivi nei testi o comunicazioni commerciali?
I bias cognitivi nel neurocopywriting
Anzitutto, impariamo che i bias sono delle distorsioni o automatismi mentali e comportamentali che influenzano il modo in cui interpretiamo la realtà che ci circonda. Questi meccanismi affondano le loro radici in schemi mentali, contesto culturale e sociale, paure e giudizi che abbiamo appreso nel corso della nostra vita.
A prima vista ci permetterebbero di farci l’idea di ciò che potrebbe interessarci senza perdere tempo, ma a quale prezzo?
I bias più noti tra scarsità, riprova sociale e ancoraggio
Conoscere l’esistenza dei bias cognitivi è utile al copywriter per orientare il lettore rispetto all’obiettivo del suo testo. Vediamo insieme alcuni dei bias più usati nelle headline e cta.
- Effetto Cornice ( Framing Effect): è l’effetto che si verifica nel momento in cui il messaggio è in grado di modificare la percezione di un’informazione in base al modo con cui è veicolata. Il marketing spesso usa il framing del guadagno e il framing della perdita. Nel primo il messaggio sottolinea i vantaggi e benefici che seguono a una scelta di acquisto, diversamente il secondo sottolinea gli svantaggi e le opportunità mancate.
- Effetto Carrozzone (Banwagon Effect): questo è il bias della riprova sociale. Per sentirsi rassicurati, poiché siamo in cerca di riconoscimento tendiamo a desiderare e acquistare prodotti che ci conferiscono uno status quo.
- Effetto Ancoraggio: si basa sul paragone tra due opzioni dove la prima proposta condiziona la percezione delle successive. Per esempio: un sito mostra prima un abbonamento da 99€, subito dopo quello da 49€. Quest’ultimo, in paragone, sembra molto più conveniente, anche se non lo è del tutto.
Storytelling ed empatia: il potere del neuromarketing nei testi
Arrivati a questo punto, abbiamo visto come le tecniche di ancoraggio o riprova sociale funzionano perché parlano agli automatismi della mente. Avere, invece la capacità di raccontare storie crea connessioni.
È qui che entra in gioco il ruolo dello storytelling. Il saper narrare storie creando legami emotivi piuttosto che gabbie mentali.
Ciò accade in quanto lo storytelling attiva gli stessi circuiti cerebrali che useremmo vivendo davvero quell’esperienza. Le neuroscienze mostrano che quando una narrazione è ben costruita, il lettore non si limita a capire, ma sente ciò che legge.
Pertanto, raccontare significa mettere in scena emozioni, situazioni e desideri nei quali il pubblico possa riconoscersi. In questo modo il messaggio non solo informa, ma resta impresso nella memoria e rafforza il legame con il brand.
Storytelling emozionale: tecniche per il copywriting
Applicare lo storytelling al copywriting significa praticare il copywriting emozionale. Si cerca di tradurre il sentire, il vissuto interiore in esperienze emotive concrete. Secondo questo approccio alcune tecniche utili di neuromarketing applicate al copywriting sono:
- Scrivere per i 5 sensi: usiamo parole che parlano ai sensi, che li risvegliano come “il brivido della partenza”.
- Mettere al centro il cliente: strutturiamo la narrazione in modo che il lettore si senta l’eroe della storia, mentre il brand è la guida che lo accompagna alla soluzione.
- Leva sulla gratitudine: sottolineiamo l’importanza del “qui e ora” attraverso la descrizione e il ricordo di piccoli momenti che ognuno di noi ha vissuto nella sua vita come un’uscita tra amici, una riunione familiare, il primo appuntamento tra innamorati.
- Il cappello giallo: evidenziamo i vantaggi o aspetti positivi che il cliente conosce grazie alla scelta che ha compiuto.
Il valore del neurocopywriting oggi
Il neurocopywriting ci mostra che dietro ogni scelta non c’è solo architettura sintattica e grammaticale delle parole, ma emozione. Ogni parola può dare un nome a una sensazione, ispirare, educare ai sentimenti e al riconoscimento dei propri bisogni.
Scrivere con questa consapevolezza non significa manipolare, ma assumersi una responsabilità. Usare le neuroscienze per comunicare in modo empatico e funzionale alle persone che leggono.
In un mercato saturo di stimoli, questa è la differenza tra un testo che inganna per convincere e uno che costruisce relazioni durature, basate su fiducia ed empatia.
