Che cosa significa fare pubblicità su Facebook e Instagram oggi, quando gli algoritmi di Meta sembrano prevedere i nostri desideri prima ancora che li esprimiamo?
“Confessioni di un marketer” di Enrico Marchetto (Apogeo, 2024) ci porta proprio dietro le quinte di quel meccanismo empatico eppure manipolatorio che caratterizza la comunicazione online. Da un lato, l’empatia è come un ponte verso il pubblico, dall’altro diventa uno strumento che i professionisti dell’advertising possono usare per far scattare il click, l’acquisto, l’azione.
Finalmente possiamo leggere un testo che non è solo un manuale puramente tecnico, anzi. È una narrazione che mescola in egual parte esperienza professionale, riflessioni personali e una grande conoscenza del marketing. Il lettore viene accompagnato tra paesaggi culturali, momenti autobiografici ed esempi pratici.
Basandosi su vent’anni di lavoro all’interno dell’ecosistema Meta, Marchetto ci offre uno sguardo lucido e critico sui principi manipolativi che influenzano le nostre scelte, spiegando con chiarezza le dinamiche fondamentali della pubblicità online.
Insomma, non ci si trova di fronte alla solita guida per “abbassare il costo di acquisizione” o migliorare il CTR: qui si parla di strategie, di algoritmi e di come questi si inseriscono nella nostra quotidianità.
Il risultato è una lettura illuminante per professionisti del marketing, creatori di contenuti, semplici utenti e chiunque voglia comprendere meglio le logiche pubblicitarie di Facebook e Instagram. Un testo coinvolgente, scorrevole – anche sorprendente! – pronto a ribaltare il mito del consumatore pienamente consapevole.
Nell’invitarvi a leggere il libro, pubblico a seguire un’intervista all’autore sui temi che più mi hanno incuriosito.
Nel tuo libro metti al centro il tema dell’empatia come arma a doppio taglio nel marketing su Facebook e Instagram: quali sono gli esempi più emblematici che hai incontrato, in vent’anni di attività, in cui l’empatia è stata sfruttata per manipolare le scelte dell’utente?
Per rispondere qui dobbiamo un po’ fare chiarezza sul significato dei termini.
Chi si occupa di marketing nella maggior parte dei casi non si occupa di “manipolazione”. Si occupa principalmente di Influenza e, come direbbe Cialdini, Persuasione.
La manipolazione ha un significato diverso nel senso che persegue gli stessi scopi di influenza e persuasione ma metodi subdoli mirando all’inganno.
Noi nel nostro mestiere questo ovviamente lo evitiamo.
Però il contesto che analizzo fin dal primo capitolo ha grande elefante nella stanza che si chiama Algoritmo.
L’algoritmo di Meta è il distributore del nostro contenuto.
Non siamo più noi a decidere chi vedrà il contenuto ma l’intelligenza artificiale.
Un contenuto polarizzante all’interno di un contesto di marketing politico lo affidiamo alle mani dell’algoritmo.
Un contenuto che lavora sul senso di colpa, sul pain point, sul provare a farti sentire a disagio e incompleto o incompleta perché ancora non hai provato un servizio x, l’algoritmo lo andrà a depositare verso un pubblico particolarmente sensibile a questa stimolazione.
La riflessione che faccio nel libro è proprio questa: stiamo ancora parlando di influenza e persuasione nel momento in cui abbiamo abdicato a favore di una distribuzione algoritmica?
Comunque per rispondere diretto diretto alla tua domanda, alla luce di questa premessa, le cose più empaticamente manipolative le ho viste nel marketing politico.
E lo racconto bene io uno dei tre incipit (sì, ne ho scritti tre) del libro.
In che modo l’analisi dei dati e la comprensione degli algoritmi di Meta si trasformano, nel tuo lavoro, da un semplice aspetto tecnico a uno strumento narrativo capace di influenzare sia le vendite, che l’immaginario collettivo?
Francesco Agostinis tiene una rubrica di domande e risposte su Instagram che leggo sempre molto volentieri.
A un certo punto un follower gli chiede “ma qual è la ads migliore possibile? Che caratteristiche deve avere?”. E lui risponde, “dev’essere una reach experience”.
Ecco io penso che qualsiasi stimolo dev’essere un’esperienza ricca.
Ricca nel momento in cui lavora sul trigger point perfetto nel momento perfetto.
Ma anche un semplice “hey tu, compra!” diventa un’esperienza utente ricca se distribuito nell’esatto momento in cui un consumatore e una consumatrice sono a un passo da fare “purchase”.
Questo è il motivo per cui teorizzo che prima di tutto l’advertiser debba lavorare sulla cultura dello stimolo e poi vestirlo di un contenuto.
Ho una linea di cosmesi e voglio giocare sul trigger point del “prima e dopo”? Bene prima studio il trigger point, poi lo vesto della creative migliore.
Voglio lavorare sul pain point del mio pubblico? Mi studio i 3-4 migliori punti di disagio e sofferenza del mio pubblico e poi costruisco il contenuto.
Stimolo-trama-ads. Questa è la mia sequenza.
Nel tuo libro sottolinei come la figura del consumatore consapevole sia in parte un mito. Da professionista, quali strategie consiglieresti per sviluppare una vera consapevolezza, sia per chi fa advertising sia per chi, da utente, ne subisce gli influssi?
Più che un mito direi che forse abbiamo investito troppo nella linearità e nel meccanicismo di un percorso al consumo.
“Questa creatività la mostro top of the funnel, questa è perfetta per una fase di consideration. Ah questa invece è il top per il retargeting”.
Sequenze del genere nel 2024 a volte sono ancora valide, a volta ti portano a prendere cantonate colossali, soprattutto pensando al fatto che allo stato attuale il 90% delle campagne Meta sono campagne di prospecting, cioè si rivolgono a un pubblico che non ti conosce o che non ti segue.
Se incontri per la prima volta qualcuno che non ti conosce e che non ti segue, devi attivare la sua attenzione e il tuo impegno dev’essere al 100% sulla qualità dello stimolo.
Non è un caso che una delle parole più in voga quest’anno sia “brandformance” ovvero progettare contenuti o sequenze di contenuti di brand che contengano obiettivi di performance, ed è vero anche l’opposto: progettare contenuti performance che contengano forti elementi di brand building.
L’immaginario di un advertiser deve crescere, ampliarsi, abbracciare mille test differenti. E non rimanere imprigionato in logico scolastico-accademiche che, forse, hanno fatto un po’ il loro tempo.
L’unico modo per prendere consapevolezza è cambiare idea spesso.
Sperimentare.
Testare.
Imparare.
Si chiama “Marketing”.
Come si è evoluta e come si evolve la tua formazione professionale? Quali competenze ritieni indispensabili per restare al passo con questo ecosistema?
Molto semplice: se immaginiamo l’advertising su Meta o più in generale il Social Media Marketing con una piramide di Maslow, il pilastro, la base della piramide sono “i segnali”.
Va da sé che tutta la formazione professionale di un marketer dev’essere rivolta alla “cultura del segnale”.
Quali segnali sto inviando alla macchina? Li prende dal pixel (stadio evolutivo basso) o li prende dal CRM (stadio evolutivo alto)?
Quali segnali sto inviando dalla mie creatività? Pochi segnali da poche creatività (stadio evolutivo basso) o ricchezza di trame e stimolazioni differenti (stadio evolutivo alto)?
Quali segnali sto inviando dalla mia strategia? Struttura scolastica come da “sussidiario Meta” (stadio evolutivo basso) o customizzazione precisa sul cliente e sul consumatore del mio cliente (stadio evolutivo alto)?
Morale: un’unica grande competenza, lo studio dei segnali da dare e da ricevere.