Per parlare di native advertising oggi inizierò con un esempio concreto.
Hai mai fatto caso alle reazioni delle persone quando dici che lavori nel settore pubblicitario? Le mie si dividono solitamente in due categorie: quelli che fanno “Ohhhhhhhhh!” e quelli che fanno “Ah”. I primi farciscono la loro reazione con uno stupore quasi candido, esclamazioni di approvazione e una serie di domande scodinzolanti, più o meno entusiaste e più o meno pertinenti: a loro balza subito agli occhi il lato giocoso, creativo e divertente della pubblicità. I secondi si congelano in un silenzio stizzito e trattengono a stento commenti cinici e di disapprovazione. Tolti tutti gli aspetti socio-cultural-politici del caso, resta una grande verità: l’idea condivisa di pubblicità è che si tratti di una cosa che dà fastidio, che interrompe, che arriva senza essere richiesta, addirittura che inganna.
E una seconda, grande verità: a noi pubblicitari interessano di più quelli che fanno “Ah”.
Che c’entra tutto questo con il native advertising?
Il native advertising vuole proprio lavorare in direzione opposta a tutte le cosacce che la pubblicità ha assunto negli anni come tratti distintivi: il non essere richiesta, il fungere da interruzione, in soldoni il risultare una gran rottura di scatole. Per fare questo, si è pensato a una nuova idea di marketing, meno invasiva e più coinvolgente. È detta native advertising quella forma di comunicazione pubblicitaria in grado di inserirsi, mimetizzarsi e allinearsi completamente nel suo contesto editoriale sia nella forma, sia nei contenuti, a tal punto da risultare gradita e richiesta, o da suscitare interazioni e lead spontanee.
Può essere di tipo puramente editoriale – ad esempio, un articolo o un contenuto sponsorizzato direttamente da un brand su un portale di aggregazione di contenuti; oppure può essere di tipo social – esempi noti sono i post sponsorizzati di Facebook che fioccano in home page esordendo con “Al tuo amico Tiziocaio piace X”: se ben fatti, riescono a unire un buon contenuto a una relazione sociale (e qui sta proprio l’aspetto native di questa forma di advertising). L’aspetto rilevante, come anticipavo, sta nella mimetizzazione del native advertising: riesce a camuffarsi e a intrecciarsi con le caratteristiche del contenitore che lo pubblica, sia esso un magazine, un aggregatore di notizie o un social network.
Questo significa anche che:
- Il contenuto sponsorizzato non è contestualmente distinguibile dai contenuti non sponsorizzati del contenitore che lo ospita: nel caso, ad esempio, di un magazine, non sarà un banner a lato di un articolo, ma sarà proprio… un articolo.
- Un native advertisement è sempre scelto dagli utenti, oppure ha a che fare con condizioni che motivano l’utente: è un contenuto che viene cliccato, letto, condiviso e commentato su iniziativa indipendente di un utente, o che riguarda le relazioni sociali strette dell’utente (o le persone con cui interagisce significativamente online).
- È un advertisement caratterizzato da contenuti di qualità.
Perché il native advertising conta per chi fa content marketing?
Se sei un copywriter, un community manager o un content strategist, hai una grossa voce in capitolo in fatto di native advertising: se hai le condizioni giuste per la produzione di un buon native advertisement (ad esempio: un contenitore che ti ospita, un’audience vasta che già si appoggia a quel contenitore perché ne fruisce normalmente i contenuti, un argomento pertinente), ma non produci un contenuto veramente coinvolgente ed efficace, il native advertisement non potrà funzionare.
Siccome, però, lo studio e/o la creazione di contenuti creativi e coinvolgenti è proprio ciò che caratterizza buona parte del tuo mestiere, ricordati che tutto ciò che sai e che sai fare bene a livello di content marketing, vale anche a livello di native advertising: contenuti utili e interessanti come video, consigli, novità, interviste, guide e infografiche, con i relativi registri e tone of voice di riferimento, sono tutti format estremamente validi e strutturalmente accattivanti anche in questo contesto comunicativo. Ciò che cambia, a livello di native advertising, è semplicemente il tipo di distribuzione. Un content marketer, inoltre, è fondamentale nella pianificazione strategica del native advertisement perché, a seconda del contenitore che il suo brand di riferimento sceglie, dovrà produrre un contenuto che andrà a interagire con diversi tipi di audience.
Dove e con chi si può fare native advertising? 5 esempi noti:
Aldilà dei social network tradizionali su cui è possibile sponsorizzare dei contenuti e dove il targeting è gestito autonomamente, piattaforme note per il native advertising sono:
- Stumble Upon: il divertente portale di scoperte basate sugli interessi degli utenti (il suo nome, in italiano, significa proprio “Inciampare su”, “Capitarci per caso”) ha aperto alle Paid Discovery, grazie alle quali i brand possono inserire a pagamento i propri contenuti nello stream degli utenti che hanno selezionato di voler “inciampare su” determinate categorie di interesse (design, cucina, fumetti, fotografia e molto altro ancora).
- Taboola: questa piattaforma permette di far emergere contenuti rilevanti (siano essi articoli, post di blog o video) a fianco di qualche articolo tematicamente pertinente, grazie a una barra laterale chiamata “Content You May Like”. Se, ad esempio, io sto leggendo il giornale online PincoPallo e nella fattispecie l’interessante articolo di cucina macrobiotica di Chef A. Casaccio, in basso a destra nella sezione “Content You May Like” mi comparirà l’headline dell’articolo di cucina macrobiotica sponsorizzato dall’ipotetico brand alimentare Troppobbuono e se tu, content marketer, avrai scritto una buona headline, io lo cliccherò di mia iniziativa e lo leggerò spinto da interesse sincero per l’argomento, pur consapevole che si tratti di un contenuto sponsorizzato. Come anticipavo, altri contenuti validi per Taboola sono anche post e video, i quali potranno essere visualizzati direttamente sul sito, sul microsito ad hoc o sul canale YouTube del brand che ha deciso di sponsorizzarli.
- Outbrain: un po’ come Taboola, anche questa piattaforma lavora in maniera verticale e riesce a suggerire all’audience giusta dei link personalizzati sulla base delle sue preferenze di lettura, facendo leva principalmente sulla curiosità di ciascuna audience e sul suo coinvolgimento diretto.
- Be On: questo portale di native advertising è dedicato esclusivamente ai contenuti video, i quali vengono distribuiti su ben 16 canali verticali. LG, H&M, Durex, Evian e alcuni club calcistici hanno già utilizzato il portale per della pubblicità nativa.
- BuzzFeed: il celebre portale americano ospita numerosi contenuti nativi di branded entertainment, ovvero di contenuti di intrattenimento legati a un dato brand. Tra i grandi marchi che l’hanno utilizzato spiccano, ad esempio, Pepsi e Mini.
Cosa possiamo imparare dal native advertising?
Mentre le discussioni sul native advertising impazzano negli States, qui in Italia è ancora molto poco conosciuto e quasi per nulla praticato. Su alcuni spunti interessanti, però, possiamo riflettere fin da ora. Il native advertising:
- è realizzato con un tone of voice da contenuti non sponsorizzati (e, come direbbe Ogilvy, proprio in questo sta buona parte della sua efficacia);
- tratta i consumatori da normali interlocutori e gli interlocutori non si sentono trattati da consumatori;
- non tradisce, ma possibilmente aumenta la fiducia dell’audience nel brand (perché offre contenuti realmente pertinenti con le sue esigenze o perché fa leva sulle sue relazioni dirette nei social network);
- è altamente trasversale perché, per realizzarlo adeguatamente, devono cooperare diversi team di comunicazione e creativi (in altre parole, è una forma di comunicazione che dà lavoro a più realtà in sinergia);
- è un ottimo modo per rimettere in circolo forme di advertising non sempre sfruttate per mancanza di strategie di comunicazione flessibili a monte (ad esempio la produzione di contenuti video sponsorizzati di durata variabile o l’article marketing);
- è un’eccellente area di sperimentazione creativa: la possibilità di distribuzione a audience specifiche lascia spazio alla creazione di format di contenuti diversificati e molto specifici, con registri che possono spaziare dallo storytelling aziendale al branded entertainment fino alla distribuzione di informazioni fresche e utili.
E tu, che ne pensi? Ti viene qualcos’altro in mente se pensi al native advertising? Fammi sapere la tua qui sotto nei commenti.