Si racconta che una volta una ragazza italiana, entrata in un negozio di biancheria intima londinese per acquistare «a black body», restò a dir poco esterrefatta quando la commessa le consigliò di provare a cercarlo… in un obitorio (body= corpo, ma anche cadavere; il body cercato dalla signorina non esiste invece in inglese, poiché per indicarlo si usa il termine leotard o, al limite, body-suit).

L’inglese è una lingua meravigliosa, ricchissima (forse la più ricca al mondo), solo apparentemente facile, ma in realtà difficilissima, piena di sottintesi e densa di enormi campi semantici associati a piccole variazioni nell’uso delle parole.
Volete un esempio di questa difficoltà?
Ultimamente, mi è capitato di chiudere un post di Google+ che presentava un mio articolo con la consueta e usatissima frase Sharing is Caring.
Tutti noi abbiamo visto, letto, scritto questa frase decine di volte. Eppure, quella volta mi è capitato che un lettore mi chiedesse conto della sua traduzione, visto che a suo dire non conosceva l’inglese e lo stesso traduttore di Google non riusciva a sbrogliare la matassa (provateci: scoprirete insieme a me che «la condivisione è la cura», non si sa di quale malattia).
Risultato: dopo avergli spiegato che il verbo to care ha una semantica incredibilmente estesa, ho proposto come traduzione possibile «condividere significa prendersi a cuore [ciò che si è letto]» e l’ho rimandato a un interessantissimo articolo di Roberta Martucci Schiavi che affrontava proprio la problematica della traduzione di questa usatissima locuzione.
L’Itanglish del marketing
Nell’advertising come nella politica, purtroppo, i problemi derivati dall’uso sempre più diffuso del così detto Itanglish, quando si ha una cattiva conoscenza dell’inglese, si sprecano: dalla linea di materassi Morbid Line, evidentemente con cadavere incluso (Morbid: macabro, dal latino morbidus) fino agli abiti Soul Free (senz’anima: probabilmente l’estensore di contanto slogan intendeva dire: Free Soul, anima libera) di un grande magazzino romano.
Il nostro mondo in particolare, quello del marketing digitale e dei Social Media, è poi particolarmente afflitto dai problemi di traduzione per un motivo specifico: quasi tutto ciò che facciamo nella nostra attività, dagli strumenti utilizzati fino alle stesse tecniche di marketing, di scrittura e di condivisione dei nostri contenuti ha derivazione americana.
Quando scriviamo i nostri articoli, spesso le nostre fonti sono al di là dell’oceano; quando utilizziamo un tool in rete, le istruzioni sono generalmente scritte in inglese – e meno male, aggiungerei, dato che di recente mi è capitato di leggere anche su siti importantissimi delle guide caratterizzate da traduzioni improbabili, come quelle che vedremo qui sotto.
Si tratta, a volte, di errori importanti, altre di un utilizzo troppo disinvolto di alcuni anglicismi che, sebbene in qualche caso entrati ormai stabilmente nella lingua italiana, spesso conferiscono al testo un sapore artificioso e non autentico.
Teniamo una traccia
Il primo e forse il più pertinente tra gli esempi di quest’ultima categoria è dato dalla locuzione tenere traccia. È sbagliato dire in italiano che si tiene traccia di qualcosa? Ormai non più, si direbbe. Del resto, una peculiarità di qualsiasi lingua è quella di adattarsi al suo tempo e di contaminarsi felicemente grazie a contributi eterogenei.
Tuttavia, ci sono situazioni in cui è facile scadere nel brutto italiano, e altrettante situazioni in cui sarebbe molto semplice migliorare il proprio scritto provando a uscire dalla gabbia della traduzione per concentrarsi invece sull’aspetto semantico di ciò che si scrive.
Un esempio? Pensate alla locuzione: To keep track of the developments. Come la traducete? Senz’altro con: Tenere traccia degli sviluppi, vero? E perché non più semplicemente Seguire gli sviluppi? Oppure, ancora: To keep track of the sales. Tenere traccia delle vendite, o Controllare l’andamento delle vendite?
Qual è più chiaro? Si deve dare maggiore importanza al senso della frase più che alla traduzione grammaticale.
Le regole d’ingaggio
Se con tenere traccia siamo in un ambito dove è più l’eleganza della correttezza a fare la differenza, quando arriviamo al sostantivo Engagement entriamo in una zona più di confine (stavo per dire: border line).
To engage è un verbo che in inglese ha un’ampiezza semantica enorme. To be engaged vuol dire essere fidanzati (o meglio, essere promessi sposi, giacché la condizione di engaged prevede l’accettazione di una proposta di matrimonio e ti rende un o una betrothal).

In ambito militare, però, engagement vuol dire genericamente una situazione di conflitto (ad es.: The engagement resulted in many casualties: su resulted, vedi più avanti) ed ha addirittura significati diversi se utilizzato da un pilota di un caccia o da un capitano di marina. In meccanica, con engagement si intende invece lo stato di connessione tra due pezzi (ad esempio due ruote dentate).
Con engagement, infine, si intende genericamente un impegno, come un appuntamento di lavoro.
Che c’entra con il marketing? Poco, in effetti, fino a quando – abbastanza di recente – non venne coniata la locuzione Engagement marketing per indicare non il marketing degli abiti da sposa, ma un marketing partecipativo, dove i consumatori vengono attratti, invogliati, coinvolti nella creazione del brand.
Ora, come direste in inglese, con una parola, attrarre, invogliare, coinvolgere? Esattamente: il verbo giusto da utilizzare in questo caso è proprio to engage, e il nuovo significato di Engagement, come sostantivo, deriva esattamente da quest’utilizzo particolare del verbo in un contesto di marketing.
Vedete come siamo lontani dalle «regole d’ingaggio» con cui i militari dettano le regole di comportamento da tenersi nell’imminenza di un conflitto. Eppure, ancora recentissimamente mi è capitato di leggere locuzioni come «tasso di ingaggio» o «numero di ingaggi» in riferimento al tasso di Engagement che un post o un articolo ha prodotto sul web.
Engagement è una di quelle parole – un po’ come lo stesso marketing – che in italiano si fa fatica a tradurre. Se proprio non possiamo trattenerci, però, usiamo coinvolgimento: saremo abbastanza vicini al significato originario.
Giochiamo a Trivial?
Quanti di voi hanno giocato al Trivial Pursuit, il gioco da tavolo con le domande divise per categoria? Triviale, in italiano, ha un significato principale ben chiaro: vuol dire sconcio, indecente, e deriva dal sostantivo trivio, che oltre ad essere la parte ventrale del corpo di un’oloturia (giuro!), è anche un incrocio di tre strade. Per estensione, quindi, un lessico triviale è un lessico da strada, volgare e plebeo.
Esiste un altro significato? Certamente. È, appunto, quello derivato dall’inglese: vuol dire banale, di scarso interesse, di nulla importanza. Una semantica che affonda le radici in un libro degli inizi del secolo scorso, del saggista statunitense Logan Pearsall Smith, intitolato appunto All Trivia: una raccolta, secondo l’autore, di «bits of information of little consequence».
Il significato principale inglese è, in italiano, un semplice derivato dall’uso scorretto della traduzione di trivial con triviale? Non sono un esperto, ma lo giudicherei probabile. Allora, mi chiedo: perché non tradurre più correttamente con l’italianissimo e inequivoco banale, di poco conto, invece di insistere nell’equivoca italianizzazione del termine inglese?
Altri possibili esempi: pensate a tutte le volte che avete tradotto A resulted in B con A risultò in B invece che da A derivò B, e A supports B con A supporta B invece di B è compatibile con A. Ormai non ci facciamo neanche più caso, ma continuiamo ad utilizzare delle forzature laddove avremmo a disposizione un intero arsenale linguistico per rendere più elegante la nostra scrittura.
Dicevo poc’anzi che la lingua inglese è ricchissima. Vero.
Lo è, però, anche quella italiana. Non dimentichiamoci di usarla, quando è possibile!
Ma quanto sei rilevante!
Qui si arriva al virtuosismo. Allora, diciamolo una volta per tutte, a costo di inimicarmi tutti i web-cosi d’Italia.
Relevant NON vuol dire Rilevante. Punto.
Quando continuo a leggere, sulla rete, che i contenuti che produciamo per il content marketing devono essere coinvolgenti, interessanti e rilevanti, vi confesso che in qualche caso mi viene il dubbio che l’estensore dell’articolo non abbia capito lui stesso quello che sta dicendo.
Quando poi si arriva a leggere (nei manuali d’uso) istruzioni come «per continuare, premi il pulsante rilevante» capite che c’è da mettersi le mani nei capelli.
Allora, chiariamo l’equivoco.
In italiano, almeno fino a oggi, l’aggettivo rilevante vuol dire, come significati principali, in rilievo (cioè prominente) o di rilievo (cioè importante). In inglese, se voglio dire che una cosa è rilevante, uso in genere l’aggettivo outstanding.
Relevant, invece, vuol dire appropriato, adeguato, pertinente. E la pertinenza è, evidentemente, una delle principali doti che deve avere un contenuto per essere adeguato al content marketing. Deve, cioè, parlare al suo pubblico (o target audience che dir si voglia), e deve essere adeguato a rispondere ai bisogni che il pubblico manifesta.
Quindi: quando troverete d’ora in poi un post in cui si dice che un contenuto deve essere «rilevante», traducete mentalmente con «pertinente»: tutto vi sarà più chiaro.
Poi, sicuramente, qualcuno (dopo aver fatto la sua ricerchina) mi dirà: «Ma se cerchi bene sui vocabolari, alcuni di essi alla parola rilevante corrisponde anche il secondo significato di “pertinente”».
Per carità, è vero: la lingua, come detto, si adegua ai significati. Ditemi, però, sinceramente: chi di voi utilizza il termine in quest’ultima accezione, nella lingua parlata, al di fuori del contesto dei Social Media? E poi: usereste (consapevoli di voler dire pertinente) questo termine per spiegare alla nonna come dev’essere il Content Marketing?
Relevant è solo il più classico dei falsi amici che troppo spesso sono alla base di spostamenti radicali nel senso di un discorso scritto nei blog di marketing che noi tutti frequentiamo. Altri (fortunatamente più rari) sono Consistent (coerente, non consistente), Education (istruzione, non educazione), Common Sense (buon senso, non senso comune), Ingenuity (ingegnosità, non ingenuità).
Tutti termini che è facile trovare diffusi e tradotti nel web blogging, e il cui uso errato spesso è indice di una comprensione solo approssimativa delle fonti che si vogliono, a volte un po’ pomposamente, citare.
Per concludere, vorrei chiarire una cosa: non sono e non ambisco a diventare un Accademico della Crusca, né un fanatico nazionalista della lingua. Anzi. Chi mi legge spesso, sa che a volte i miei post sono anche eccessivamente densi di terminologia tecnica inglese, e non mi sentirete mai tradurre CRM con «gestione del rapporto con i clienti».
Avendo però studiato diverse lingue nella mia vita (in modo più o meno approfondito) e avendo potuto apprezzare le grandi e piccole peculiarità che ogni lingua racchiude in sé, ho imparato una cosa che, chiudendo questo articolo, vorrei condividere con tutti voi.
Eccola: se, nella traduzione di un testo, scoprite che il testo italiano si avvicina troppo a quello originale, fate qualche controllo: probabilmente, qualcosa non va.
2 coomenti
Ciao! Esordisco col dire che dopo anni e anni di studio (e lavoro, intendiamoci!) giusto 29 giorni fa mi sono laureata in lingua e letteratura inglese, tesi magistrale del vecchissimo ordinamento quadriennale, e che mi piacerebbe tantissimo fare della traduzione dall’inglese il mio futuro. Dico questo non per vanto, ma perché, anno dopo anno, credo di aver acquisito una discreta esperienza di traduzione dall’inglese all’italiano. Non posso che confermare quanto esposto nell’articolo, e col pensiero vado ai mitici “false friends” che qualche problema lo creano di sicuro, soprattutto a noi latini; basti pensare per esempio alla parola “library” che non corrisponde a “libreria” bensì a “biblioteca”. Nella traduzione dall’inglese ogni frase va tradotta sia rispettando le parole dette, ma soprattutto il senso e in particolare bisogna rispettare il modo di esprimersi in inglese e quello, differente, di esprimersi in italiano. Più che di traduzione da parola a parola, da frase a frase, si tratta di traduzione da cultura a cultura, da quella inglese a quella italiana, che sono molto diverse.
Ciao Valeria, grazie mille per il tuo commento – vedere le mie considerazioni confermate da chi vuole fare della traduzione una professione è ovviamente lusinghiero.
Ogni lingua è piena di trappole, ma l’inglese secondo me è particolarmente denso di equivoci, spesso anche interni alla lingua stessa. Oggi ho letto ad esempio che “Dutch military plane carrying bodies from Malaysia Airlines Flight 17 crash landed in Eindhoven” – e no, non se ne è schiantato un altro… 🙂
Senza arrivare a questo, ovviamente, sarebbe già bello se la gente smettesse di tradurre “for good” con “per bene” – con gli effetti comici del caso. Sarebbe già questo un buon successo, non credi?